Presentiamo l'articolo di
Giancarlo Zizola, apparso in “la Repubblica” del 19 novembre 2010, con il titolo
Addio ad Adriana Zarri teologa di sinistra.
Buona lettura!
Cantava i suoi salmi all'alba con gli uccelli, i gatti e le ortensie, il suo tempio era il creato ma teneva nel casale ad Albiano che aveva rifatto come suo eremo un piccolo tabernacolo per l'adorazione, come la "messa sul mondo" imparata da Teilhard de Chardin. Se ne è andata quietamente Adriana Zarri, questa pura eremita di vocazione, progenie di una stirpe che fa ricca di silenzi una terra stravolta dal baccano, dalla menzogna e dallo spettacolo, e probabilmente le assicurano una segreta scialuppa. L'eremo in realtà non era solo suo, era un rifugio per tanti spiriti in ricerca accolti come tali, a prescindere dalle loro convinzioni religiose o atee. E anche per il mondo cattolico, nel quale aveva donato la sua fedeltà da laica, da teologa, da militante critica, da donna capace di emancipazione e dunque d'imprudenza, pronta a scottarsi la lingua con la verità impavida anche di fronte a vescovi e papi, questa asceta solitaria aveva continuato fino all'ultimo dei suoi 91 anni a tener viva l'inquietudine della profetessa: non era azzardato, alla fine dei conti, paragonarla a una piccola Caterina da Siena con la frusta in mano contro le deviazioni simoniache di una Chiesa ancora concubina ad Avignone.
Era stata lei (il cui ultimo libro uscirà a febbraio per Einaudi Un eremo non è un guscio di lumaca) a rompere il ghiaccio maschilista della corporazione teologica in Italia, rivendicando il carisma femminile del discorso su Dio. Era stata nel 1969 la prima donna laica ammessa nel direttivo dell'Associazione Teologica Italiana. Bolognese di San Lazzaro di Savena, era arrivata alla teologia da ragazza, spinta da un profondo interesse religioso e da un'attrazione non meno forte per la filosofia. Questa passione assume essenzialmente tre forme, la produzione ecclesiologica (a cominciare da un libro sui Padri della Chiesa, specialmente Sant'Agostino), la narrativa e la spiritualità contemplativa, mai però distratta dai problemi della terra per l'alto dei Cieli: prima donna laica in Italia a scrivere un libro sulla teologia e antropologia della preghiera Nostro Signore del deserto.
Nel 1961 Adriana interviene nel dibattito aperto da Giovanni XXIII con La Chiesa nostra figlia, il primo contributo di una donna ai temi della riforma della Chiesa. La sua critica al trionfalismo clericale prefigura lo sviluppo del modello di "Chiesa di comunione", libera da egemonie di genere e ricca di carismi.
Teologia del probabile resta probabilmente il suo intervento più incisivo e lungimirante. Nel 1967, a Concilio appena concluso, gettava l'allarme sulle letture o catastrofista o trionfalista del Vaticano II, l'illusione di una Chiesa definitivamente salva e l'allarme per una Chiesa totalmente turbata, in cui si bloccavano le riforme. Aveva cercato di fugare il malinteso per cui il modello della riforma era un adattamento borghese del Vangelo. Era convinta che l'umanesimo cristiano o sarà un ascetismo o un semplice naturalismo, alla caccia di un'ascetica del meno e del negoziato: «Quanti s'illudono che il nuovo corso sia una manica larga che chiude un occhio e permette evasioni hanno torto di esaltare questa nuova stagione della Chiesa: non sarebbe stagione feconda. Ma il Concilio non incoraggia nulla di tutto questo».
Una frase l'aveva commossa, nei documenti conciliari: «Ignoriamo, non sappiamo». Le sembrava che la Chiesa ammettesse la sua sprovvedutezza, avendo molto sbagliato lungo i secoli:
«Quell'ammissione di ignoranza ci ha depurato il sangue da secoli di presunzione teologica, ci ha reso più umili e poveri di fronte alla grandezza del mistero».
Anche nei romanzi (Quaestio 98: nudi senza vergogna, 1994) le sua militanze religiose, i suoi stessi leggendari furori polemici versavano trame paradossali di storie di monaci che s'inebriano di sessualità come via maestra per la palingenesi cosmica e sociale. E sull'onda di queste leggende ritroviamo negli anni una mistica che difende la legge sull'aborto come strumento di difesa da pratiche abortive clandestine, reagendo allo zelo intollerante e all'astratta morale del sabato. E resta il suo monito contro le richieste e quasi le pretese di una legislazione civile che avalli una posizione teologica parziale. In pagine amare, le ultime, ripeteva la domanda: «Perché tante cattoliche e cattolici sono ormai degli ex? E perché, sconfessandoci, i vescovi rendono sterile la nostra evangelizzazione? Perché tagliano l'ultimo ponte da cui tanti potrebbero passare?».